20 Mar IL PESO DELLE PAROLE E IL SIGNOR DI LAPALISSE
35-Una recentissima sentenza della Corte di Secondo Grado di Milano richiama al realismo del significato proprio delle parole.
A volte le formalità burocratiche complicano quello che potrebbe essere uno scenario semplice e lineare, ma per fortuna ci pensa un giudice a riportare ad un sano realismo situazioni inutilmente complesse.
Già abbiamo ricordato (Gazzetta Tributaria n. 97/2022 e precedenti) che, con l’intervento di chi scrive quale difensore si è intrapreso un richiamo al realismo per la determinazione dell’ammontare del contributo unificato dovuto per instaurare una lite tributaria.
In una situazione quasi kafkiana per alcuni risvolti oggettivi, tra cui l’ammontare della posta in gioco, avanti la Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado di Milano con la sentenza n. 1014/2023 del 15 marzo 2023 (sez.3) si è forse conclusa una delle tante vertenze intraprese con una affermazione dei giudici tanto precisa quanto “ovvia”.
Riepiloghiamo brevemente la fattispecie.
Nel processo tributario, così come in tutti gli altri processi, in base al D.P.R. 115/2002 è dovuto un contributo per spese di giustizia e bolli che è variabile in base al valore della controversia, e tale valore deve essere dichiarato dall’attore nel ricorso o atto di citazione.
Circa ottant’anni fa il Codice di Procedura Civile fissava il principio che al giudice doveva essere rivolta una “domanda” e che questi non poteva pronunciare al di fuori di questa (art.112 C.P.C.).
Nel mondo tributario capita con una certa frequenza che la controversia si instauri relativamente ad una parte solamente di quanto richiesto con un atto impugnato: contestazione sulle sanzioni portate da una cartella insieme con il tributo; contestazioni su di una componente di tributi locali in un accertamento con pluralità di immobili e così via.
In questi casi la “domanda” riguarda solamente una parte del tutto, e questa parte è l’oggetto della controversia a cui commisurare il contributo.
Taluni Uffici Tributari, che debbono verificare la regolarità del contributo, pretendono di far pagare il balzello, invece, ragguagliato all’intero ammontare dell’atto di cui se ne è impugnata solo una parte, notificando al difensore la contestazione e, in genere anche la sanzione per il mancato versamento.
Dato che si tratta di una forzatura che potrebbe far pensare ad un errore del difensore tali atti, sia pure di importi a volte bagatellari (magari inferiori a cento euro!) vengono impugnati per principio, perché il valore della controversia viene stabilito nel ricorso e non piace al vostro difensore essere gravato di un errore inesistente.
Nella vertenza citata la segreteria deputata alla verifica non ha condiviso la liquidazione ma la richiesta di maggior contributo è stata annullata dalla C.T.P. di Milano; l’Ufficio ha fatto appello, con necessità per la parte privata di costituirsi.
La sentenza citata, che respinge l’appello dell’Ufficio con condanna alle spese, effettua un preciso approfondimento lessicale citando il Nuovissimo Digesto Italiano sul significato di “valore della controversia” e concludendo che se il legislatore, con il ricordato decreto sul contributo unificato, ha preteso che la parte indichi in ricorso il valore della lite vuol dire che questo (per scelta processuale del ricorrente) può essere diverso dal valore complessivo nominale dell’atto anche parzialmente impugnato.
La dichiarazione del ricorrente sul valore della controversia serve a semplificare il riscontro tra valore e importo del contributo.
Come viene fatto dire al detective inglese: Elementare Watson! e anche al di qua della Manica il signor Di Lapalisse conviene!
Ma ci sono voluti due gradi di giudizio per ribadire che i termini usati hanno un significato proprio, e se viene richiesta una dichiarazione vuol dire che possono esservi divergenze tra domanda e importo nominale dell’atto!
Gazzetta Tributaria 35, 20/03/2023
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