25 Mag IL BELLO “NON” PAGA (MA RENDE!) (Gazzetta Tributaria n.58/2023)
58-Spese di pubblicità e di rappresentanza in una recentissima ordinanza della Corte di Cassazione.
Uno dei motivi di incertezza che da decenni complica la vita dei contribuenti (e dei loro consulenti) che vogliono operare correttamente è stabilire il preciso confine tra spese di rappresentanza e spese pubblicitarie nella determinazione dei costi rilevanti per l’impresa (per il lavoro autonomo in genere il problema non si pone essendo inibita o limitata la pubblicità).
Ricordiamo per i meno esperti che ai fini delle imposte sui redditi le prime sono deducibili solo in una certa percentuale, mentre le seconde godono dell’intera deducibilità; ai fini IVA per la rappresentanza è esclusa la detrazione, mentre questa è piena per la pubblicità.
Una differenza, quindi significativa, che può modificare i risultati di bilancio, ma che trae origine da una sottile interpretazione sulla natura e sulla finalità delle due tipologie di spese che suscita sempre incertezze.
La fonte normativa è il comma 5 dell’art.109 del TUIR (anche la legge IVA qualifica le spese di rappresentanza in relazione alle imposte sui redditi) che riconosce come rilevanti le spese che “si riferiscono ad attività da cui derivano ricavi” con un concetto di relazione indiretta.
Ancora pochissimi giorni fa la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 14049 del 22 maggio 2023 ha invece ribadito la netta distinzione tra le due macro-categorie di spese, secondo un filone seguito da anni, affermando che le spese di pubblicità sono solo quelle legate ad un incremento, almeno stimato, di fatturato, mentre sono spese di rappresentanza, e quindi senza possibilità di detrazione IVA e limitate nella deducibilità, quelle aventi lo scopo di promuovere in via generale l’immagine e l’attività del soggetto erogante.
Eppure la Corte di Giustizia UE aveva sottolineato che la spesa pubblicitaria dava diritto alla detrazione IVA anche se ”tali servizi non hanno dato luogo ad un aumento del fatturato del soggetto passivo”.
Specialmente nel mondo dei beni di lusso e della gioielleria, come nel caso di specie, il rapporto biunivoco tra spesa di promozione (sia anche il restauro di immobili storici, sponsorizzazione di evento culturale e così via) e incremento del fatturato è assolutamente labile, in quanto gli effetti possono vedersi anche dopo anni; purtuttavia la Cassazione rimane ferma nel suo convincimento di relazione diretta tra fatturato e spesa pubblicitaria, relegando nel mondo della “rappresentanza” tutte quelle altre iniziative che pur rilevanti e di grande impatto mediatico non possono avere un riscontro diretto e immediato nelle vendite.
E’ una visione limitata, che rischia di rendere difficile tutta una serie di possibilità di interventi sociali che le grandi “Maison” possono svolgere nel campo sia dell’arte che del sociale.
La prevista riforma tributaria, che vedrà la luce tra qualche anno, dovrebbe consentire, nell’ambito della funzione sociale della spesa per la collettività, una migliore rilevanza fiscale delle somme erogate anche senza una diretta relazione all’incremento di fatturato, sul modello del sistema dell’Internal Revenue Service – l’Agenzia delle Entrate Federale – americana (per curiosità segnaliamo che il sito IRS Usa all’apertura della schermata presenta come prima sezione “Come possiamo aiutarvi?” una pratica applicazione di quel principio di collaborazione di cui in Italia abbiamo sollo parziale sentore).
Intanto dobbiamo lottare per vedere riconosciute le sponsorizzazioni come spese pubblicitarie! E limitare l’effetto della spesa di rappresentanza, quasi una moderna fatica di Sisifo.
Gazzetta Tributaria 58, 25/05/2023
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